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Perché l’AI fallisce

Perché l'AI Fallisce

Il vero motivo per cui l’intelligenza artificiale fallisce? La mancanza di un ecosistema umano pronto ad accoglierla

Perché l’AI fallisce? L’intelligenza artificiale è spesso descritta come il motore dell’innovazione digitale, capace di rivoluzionare processi e modelli di business. Eppure, dietro l’entusiasmo e gli investimenti crescenti, si nasconde una realtà preoccupante: molti progetti di AI non raggiungono i risultati sperati. Secondo la Harvard Business Review, alcune stime indicano che fino all’80% dei progetti di AI fallisce. Si tratta di un tasso quasi doppio rispetto ai progetti IT tradizionali di dieci anni fa​.

Di fronte a questi insuccessi, viene naturale chiedersi: perché l’AI fallisce veramente? La risposta può sorprendere: il vero ostacolo non è tecnico, ma umano e strategico. In altre parole, sono le persone, le competenze e la cultura aziendale a determinare il successo o il fallimento di un’iniziativa. La tecnologia in sé rappresenta, quindi, un fattore relativo.

L’ostacolo non è tecnologico, ma culturale e umano

Quando un progetto di AI non decolla, la tentazione è di dare la colpa alla tecnologia immatura, ai dati imperfetti o agli algoritmi sbagliati. Certo, problemi tecnici e di data quality esistono, ma le ricerche mostrano che i fattori umani e organizzativi pesano molto di più. Un recente articolo del MIT Sloan Management Review sottolinea un trend interessante. La stragrande maggioranza delle aziende incontra ostacoli interni. Il 91% dei leader di grandi imprese indica nelle sfide culturali e nel change management il principale freno a diventare “data-driven”. Solo il 9% cita problemi tecnologici​. Allo stesso modo, McKinsey evidenzia che molte trasformazioni digitali falliscono proprio a causa di resistenze delle persone e difficoltà di adattamento culturale, non per limiti della tecnologia​. In sostanza, la cultura aziendale può bloccare l’AI più di qualsiasi bug informatico.

Questa resistenza culturale si manifesta in vari modi. Ad esempio, la fiducia verso l’AI è un fattore critico: quasi 2 organizzazioni su 5 dichiarano di non fidarsi dell’intelligenza artificiale​. Spesso i dipendenti temono l’AI perché la vedono come una “scatola nera” imprevedibile o – peggio – come una minaccia al proprio ruolo. Un sondaggio citato dal World Economic Forum ha rivelato che quasi il 50% dei lavoratori si sente in imbarazzo a utilizzare sistemi di AI sul lavoro. Ancora prevale la preoccupazione “pigro, incompetente o persino imbroglione” agli occhi degli altri​. Quando prevale questo mindset di diffidenza e paura, anche le migliori soluzioni di AI stentano ad essere adottate in modo efficace. Al contrario, nelle aziende dove regna una cultura aperta al cambiamento l’AI trova terreno fertile per esprimere tutto il suo potenziale.

Competenze digitali: il gap da colmare

Un altro freno cruciale è la mancanza di competenze digitali e di talenti specializzati. Implementare l’AI richiede non solo data scientist e sviluppatori di algoritmi. Occorrono figure in grado di tradurre le opportunità dell’AI in casi d’uso di valore per il business. Molte organizzazioni però faticano a trovare o formare queste competenze. Gartner, ad esempio, identifica la carenza di talenti qualificati come uno dei principali ostacoli all’adozione dell’AI, al pari di difficoltà tecniche e problemi di dati​. Già nel 2019, un sondaggio Gartner tra CIO riportava che il 54% dei direttori IT vedeva nel “skills gap” il più grande ostacolo da affrontare. Questa preoccupazione negli anni successivi non ha fatto che aumentare.

Oggi, nonostante l’AI sia sulla bocca di tutti, poche aziende possono dirsi realmente pronte a sfruttarla su larga scala. Appena il 2% delle imprese si considera “AI-ready” in tutti i suoi aspetti (strategia, dati, competenze, governance e tecnologia)​. Questo dato, messo in luce dal World Economic Forum, evidenzia un enorme divario di preparazione. Le aziende possono avere gli algoritmi più avanzati, ma senza una strategia chiara, i progetti restano bloccati in fase pilota.

Upskilling e Reskilling

Secondo uno studio di Slack citato dal WEF, attualmente solo il 35% dei dipendenti ha ricevuto formazione sulle AI. Questo è il valore più alto riscontrato tra le varie dimensioni di “prontezza” organizzativa. Per colmare questo gap, gli esperti suggeriscono di puntare sull’alfabetizzazione diffusa in materia di AI. Serve che tutto il personale diventi “AI-aware” e una quota crescente possa evolvere in “AI builders” e “AI specialists” capaci di sviluppare e governare le soluzioni avanzate​.

Un’adeguata formazione digitale del personale è fondamentale per costruire una cultura aziendale pronta ad adottare efficacemente l’AI.

Investire nelle competenze digitali significa dunque formazione continua, programmi di upskilling e reskilling e collaborazione con università e partner tecnologici. Non si tratta solo di assumere data scientist, ma di elevare il livello di “AI literacy” in tutta l’organizzazione. Partendo dai manager, che devono capire come integrare l’AI nelle strategie di business, ai team operativi, che devono saper utilizzare nuovi tool basati sull’intelligenza artificiale. Formazione e change management vanno di pari passo – come vedremo più avanti – per trasformare gradualmente il mindset delle persone insieme alle loro skill tecniche.

Mindset innovativo e cultura aperta al cambiamento

Mindset è una parola chiave quando si parla di trasformazione digitale. A parità di tecnologia, un’azienda con un mindset innovativo avrà molto più successo nell’adozione dell’AI rispetto a una organizzazione ancorata a vecchi paradigmi. Un mindset innovativo implica curiosità, propensione a sperimentare, tolleranza dell’errore e visione di lungo periodo. Purtroppo, molte imprese faticano in questo senso: processi burocratici, silos organizzativi e una leadership avversa al rischio possono soffocare sul nascere le iniziative basate sull’AI.

Uno studio di McKinsey del 2025 rileva un dato emblematico: quasi tutte le aziende ormai investono in AI, ma solo l’1% dei leader dichiara che la propria organizzazione ha raggiunto la maturità nell’uso dell’AI (cioè utilizza l’AI in modo integrato e con impatto significativo sul business). E qual è il motivo? La ricerca evidenzia che il maggiore ostacolo alla scalabilità dell’AI non sono i dipendenti – che anzi risultano pronti – ma i leader aziendali, che non stanno guidando il cambiamento abbastanza rapidamente​. In altre parole, se il top management non abbraccia per primo l’innovazione e non la promuove attivamente, l’AI rimane confinata a esperimenti isolati. Al contrario, quando il leadership team “respira” innovazione e la incoraggia, si crea un effetto cascata: i dipendenti si sentono autorizzati a provare nuove soluzioni, a proporre idee e ad adottare gli strumenti di AI senza timori.

Comunicare bene la rivoluzione AI

Costruire una cultura aziendale aperta al cambiamento richiede dunque di agire su più fronti. Innanzitutto, comunicare una vision chiara: perché l’azienda investe in AI, quali benefici attende e come l’AI si allinea ai valori e agli obiettivi aziendali. Il World Economic Forum consiglia ai leader di sviluppare e condividere una visione strategica dell’AI che “non sia solo reazione a pressioni esterne, ma una mossa proattiva verso la crescita”. Una comunicazione trasparente aiuta anche a ridurre le paure: i dipendenti devono capire che l’AI non è lì per sostituirli, ma per amplificarne le capacità e liberarli da compiti ripetitivi, come sottolineano gli esperti di trasformazione digitale​.

Parallelamente, è importante premiare l’innovazione e l’apprendimento: ad esempio, riconoscere i team che sperimentano con successo nuove soluzioni AI, anche se inizialmente su piccola scala, invia il segnale che l’azienda valorizza il coraggio di innovare. Infine, un mindset innovativo si consolida se l’organizzazione adotta un approccio agile e flessibile, pronta a iterare rapidamente sui progetti AI in base ai feedback, invece di perseguire piani rigidi calati dall’alto.

Leadership e change management come fattori chiave

Dietro ogni trasformazione culturale di successo c’è una leadership forte e lungimirante. I vertici aziendali giocano un ruolo determinante nel tradurre l’AI da concetto tecnologico a realtà operativa quotidiana. “AI e cambiamento vanno gestiti dall’alto”: questo è il messaggio che emerge chiaramente da numerose analisi. Gli autori del MIT Sloan Management Review parlano della necessità di nuovi leader, dei veri e propri “architects of change”, in grado di guidare i complessi cambiamenti organizzativi che l’AI comporta. Se il management considera l’implementazione dell’AI un semplice progetto IT e la delega interamente ai tecnici, senza occuparsi della parte di change management, le probabilità di fallimento aumentano esponenzialmente.

Il change management applicato all’AI significa accompagnare le persone nell’evoluzione dei processi e delle competenze. Ad esempio, un’azienda che introduce una piattaforma di AI per il customer service deve prevedere un percorso di transizione per gli operatori: formazione sull’uso del nuovo sistema, ma anche supporto nel cambio di ruolo (il lavoro quotidiano inevitabilmente cambierà) e nell’acquisire fiducia verso gli output dell’AI. Coinvolgere attivamente i dipendenti fin dalle prime fasi dei progetti AI è fondamentale per ottenere il loro buy-in.

AI e KPI

Come evidenzia Gartner, le imprese più mature cercano di dimostrare concretamente il valore dei progetti AI in termini di risultati di business​, così da convincere anche i più scettici. In effetti, la mancanza di allineamento con gli obiettivi di business è un altro motivo per cui l’AI fallisce: senza una chiara correlazione tra l’uso dell’AI e i KPI aziendali, i progetti perdono sponsor interni e vengono accantonati. I leader devono quindi farsi promotori sia della visione strategica sia del monitoraggio dei benefici, comunicando vittorie rapide (quick wins) e storie di successo per alimentare l’entusiasmo.

Un efficace leadership nell’era dell’AI significa anche dare l’esempio. Se il CEO e il top management utilizzano essi stessi strumenti di AI nel lavoro quotidiano e ne parlano apertamente, trasmettono un messaggio potente: l’AI fa parte del nostro futuro e tutti, dall’alto in basso, ci stiamo impegnando per capirla e sfruttarla. Questo tipo di role modeling è spesso citato tra le best practice di change management​.

Inoltre, i leader devono assicurarsi che l’organizzazione disponga delle giuste strutture di governance: ad esempio, creare team multidisciplinari che uniscano esperti IT, responsabili di business e figure HR per guidare l’implementazione responsabile dell’AI. Così facendo, si affrontano non solo gli aspetti tecnici ma anche quelli etici, legali e organizzativi (come la ridefinizione di processi e ruoli) in un’ottica integrata.

Conclusioni: persone e cultura al centro per sbloccare il potenziale dell’AI

In definitiva, perché l’AI fallisce? La tecnologia di per sé raramente è il fattore limitante. I veri ostacoli risiedono nella dimensione umana: senza competenze adeguate, senza un mindset aperto e senza una guida strategica decisa, anche l’algoritmo più potente rischia di restare inutilizzato. Al contrario, quando persone, cultura e strategia si allineano, l’AI può sprigionare tutta la sua efficacia, aumentando la produttività, migliorando le decisioni e liberando creatività in azienda.

La buona notizia è che questi ostacoli possono essere superati. Investire nelle persone – in formazione, comunicazione e coinvolgimento – paga tanto quanto (se non di più) investire nella tecnologia. Creare una cultura dell’innovazione e della sperimentazione richiede tempo e perseveranza, ma i risultati si vedono: aziende lungimiranti che hanno puntato sul change management e sulla crescita delle competenze digitali stanno già raccogliendo i frutti in termini di adozione efficace dell’AI e vantaggio competitivo. Come suggerisce il World Economic Forum, servono strategie olistiche che integrino tecnologia e capitale umano, con partnership tra imprese, università e istituzioni per colmare i gap di competenze e favorire l’innovazione sostenibile​.

In chiusura, ogni organizzazione dovrebbe chiedersi: la nostra azienda è pronta per l’AI? Se la risposta non è un convinto “sì”, il passo successivo non sarà acquistare l’ennesimo software, ma piuttosto lavorare su cultura, competenze e leadership. Solo mettendo le persone al centro della strategia digitale si potrà evitare che l’AI “fallisca” e, invece, farla prosperare. ​